Un Alto modo di bere Piemonte

Un Alto modo di bere Piemonte

Ovvero il mio “omaggio” ai vini dell’Alto Piemonte

di Michele Longo

Ho conosciuto le denominazioni dell’Alto Piemonte grazie ai corsi AIS durante una lezione tenuta da Mauro Carosso, ma non ricordo con precisione la data. Ricordo invece perfettamente la data e l’ora in cui è scoccata la scintilla, la passione vera per questi vini: domenica 22 novembre 2009, tra le 15.00 e le 20.00 (probabilmente più vicino alle 15 che alle 20!), presso il Relais Villa Sassi, durante l’edizione di “L’altro Piemonte”. Una manifestazione cui sarò sempre grato poiché, oltre alla passione per questi vini, mi ha poi dato, nel corso degli anni, l’opportunità di poter conoscere personalmente i quattro produttori protagonisti dell’evento “Omaggio all’Alto Piemonte” organizzato lunedì 17 ottobre presso la sede AIS di Torino a cui ho avuto il piacere di partecipare.

Ci sono vini che ti entrano nel cuore e nella mente, e lì si ricavano uno spazio molto particolare, di quelli che riservi ai momenti della vita che ti hanno regalato emozioni vere ed autentiche: i Gattinara di Cinzia Travaglini, i Ghemme di Alberto Arlunno, i Boca di Christoph Kunzli e i Lessona di Luca De Marchi, per me sono tra questi vini. È stato pertanto un grande piacere raccogliere l’invito di questi produttori e di Mauro Carosso, a parlare di questo vini e dei suoi luoghi, capaci di raccontare una storia antica e unica, segnata dalle guerre, dalla fame, ma anche dalla passione e dalla tenacia dei suoi vigneron e dove il Nebbiolo (per me rigorosamente con la “N” maiuscola, … perché nel Nebbiolo non c’è nulla di minuscolo) si esprime a dei livelli di finezza, eleganza e identità caratteriale, unici.

Nel corso degli anni, degustando (e bevendo) vini, ho fatto mio questo pensiero (raccolto durante una “chiaccherata” proprio con Luca De Marchi, uno dei produttori presenti alla serata), di cui sono profondamente convinto:  “Il nebbiolo non è un’uva, è una specie di “droga” (sana, ovviamente!)!”.  Chi beve Nebbiolo, poi beve Nebbiolo, e questo crea una sorta di dipendenza. È diverso da qualunque altro vitigno; nemmeno il pinot nero arriva a tanto. “Il Nebbiolo non è un vino, non è un’uva, ma è uno stato mentale alimentato dall’anima!”. Lo bevi con il cervello … e con il cuore. La dimostrazione? È l’unica uva al mondo che nei disciplinari e nei corsi di degustazione (vero Mauro?!!) ha come primo descrittore un descrittore che in realtà non esiste, perché non è una percezione olfattiva riconducibile alla natura, ma uno “stato mentale”. Qualunque altra uva è caratterizzata olfattivamente in modo concreto. Quando partecipi ai corsi di degustazione ti insegnano: per il sangiovese la primula, per il pinot nero il ribes, per il merlot la prugna … e cosa ti dicono del nebbiolo? “Etereo!”.  Cosa vuol dire “etereo”? È o non è un descrittore completamente soggettivo?

Ecco perché il Nebbiolo è davvero qualcosa di diverso: perché parla direttamente alle persone, alla loro anima e alla loro mente! Chi non lo capisce, d’altra parte, non lo amerà mai: è una questione di passione! Se ti limiti ad “imparare” a berlo non riuscirai mai ad entrare in quella “dimensione” che coinvolge in modo così profondo “mente e anima”, e per i Nebbiolo dell’Alto Piemonte tutto questo è ancor più esaltato!

Torniamo alla serata. Sicuramente organizzata in modo inconsueto e originale rispetto alle degustazioni classiche dell’AIS: per ogni produttore c’era un “intervistatore” (tutti relatori AIS, molto bravi e preparati), che aveva il compito non solo di farci approfondire gli aspetti didattici delle singole denominazioni dell’Alto Piemonte (dal punto di vista geologico, climatico e storico), ma, attraverso le domande al produttore, di farci scoprire il “lato umano” e “personale” che si cela dietro ad ogni loro vino, facendo emergere i tratti più caratteristici e interessanti delle loro storie.

Alto Piemonte: geologia, clima e storia

L’Alto Piemonte e le Langhe sono le aree di eccellenza e di elezione del Nebbiolo in Piemonte, quelle che hanno storia più lunga e che maggiormente si differenziano per terroir e carattere dei loro vini. Se le marne di Langa, che siano di origine tortoniana o serravalliana, sono terreni alcalini, ricchi di argille e arenarie, (in percentuali e tessiture diverse a secondo delle zone) e conferiscono principalmente struttura e profondità; le sabbie, le morene e le rocce di origine vulcanica dell’Alto Piemonte, sono suoli acidi e danno vini tendenzialmente meno alcolici e dotati di una mineralità più spiccata.

Se nelle Langhe è l’esposizione (al sole e alle correnti d’aria, più ancora dell’origine delle marne) la principale discriminante; qui in Alto Piemonte è l’altitudine a fare la differenza, proprio perché ad altitudini diverse troviamo suoli con composizioni e matrici sensibilmente differenti, come dimostrano i colori delle terre e delle rocce.

Lessona è la denominazione più occidentale e più bassa (i vigneti si trovano dai 260 ai 320 m.s.l.m) caratterizzata quindi da suoli sabbiosi (cinque milioni di anni fa la Pianura Padana era mare e le terre di Lessona erano completamente sommerse). Gattinara è più in alto, qui il suolo è un mix di sabbie e porfidi. Spostandoci a sud, verso Ghemme, il terreno è molto più giovane, principalmente morenico, composto da argille e ciottoli. Infine Boca, la denominazione più alta; qui alcuni vigneti arrivano sino a 500 metri e il suolo è composto solo da porfidi e graniti. Queste differenze di origine e struttura dei suoli sono una delle caratteristiche distintive dell’Alto Piemonte che, proprio in questa serata, abbiamo poi potuto riscontrare e ritrovare (nell’ultima degustazione alla cieca n.d.r.) nei vini in degustazione.

Terreni ricchi di minerali a reazione decisamente acida, con pH che dal 4,1 medio di Gattinara tocca il 2,8 a Boca (per intenderci, l’aceto è a 2,9 e il succo di limone a 2,4), responsabili della grande mineralità di questi vini. Poi il clima: la presenza del Monte Rosa alle spalle è un fattore importante. Ripara i vigneti dai venti freddi provenienti da nord e dalle nevicate, favorendo il germogliamento precoce delle viti, e determinando una maggiore escursione giorno-notte, che favorisce lo sviluppo dell’aromaticità particolarmente complessa e sfaccettata di questi vini.

E infine la Storia. Per avere un’idea di cosa rappresentasse questa zona per il mondo del vino, basta pensare che una volta tra le due serre del Nord Piemonte (quella di Ivrea e quella di Gattinara) c’erano più di 40.000 ha di vigna. Oggi Montalcino ha poco più di 2.000 ha e Barolo poco meno; a fine ‘800 inizi ‘900, Boca ne aveva più di 4.000. Questo vuol dire che in pratica la sola zona di Boca aveva una superficie vitata che era doppia di quella di Barolo oggi.

E se parliamo di cultura del vino, allora possiamo dire che nessun’altra zona come l’Alto Piemonte rappresenta e ha fatto la Cultura del Vino in Italia. Dai Romani, passando per San Majolo (4° Abate di Cluny), per il Cardinale Mercurino Arborio, poi ancora Thomas Jefferson, per giungere al Conte di Cavour, tutti hanno riconosciuto la vocazione di queste zone per i vini di qualità (o di “lusso”, come si usava dire un tempo) e contribuito a farne la storia.  Quando nell’800, nelle altre zone viticole italiane, il vino veniva venduto sfuso, girando con i carretti e con le botti dietro, qui si imbottigliava e lo si faceva sin dal 1500 (Il primo Brunello è del 1887, i primi Barolo imbottigliati qualche decennio prima, n.d.r.). A quella epoca nessuna altra zona in Italia, imbottigliava, etichettava e spediva vino. Nel mondo solo Borgogna, Bordeaux e Nord Piemonte. Nei documenti dell’azienda Proprietà Sperino (l’azienda che ha probabilmente la Storia più lunga), custoditi nella libreria dell’antico Castello di Lessona, si possono trovare i resoconti di viaggio di Felice Sperino (che nel 1881 pubblicò: “Viti americane contro la fillossera” n.d.r.), che nel 1890 si muoveva per andare in Francia ad assistere ad una conferenza sul “terroir”, o i record scritti a mano di 150 vendemmie e della loro storia, con i commenti sull’annata, i diari di cantina e di vigna e le analisi dei mosti.  Quale altra zona in Italia, a quei tempi, si occupava di questi temi cercando il confronto con le grandi regioni francesi?

Sicuramente all’avanguardia per l’epoca. Sono di parte? Sì, ma è tutto vero, è la Storia dell’Alto Piemonte.

E quando questa zona ha smesso, tra fine ‘800 e inizio ‘900, hanno iniziato le altre. La fillossera, due guerre mondiali, due annate consecutive una più disastrosa dell’altra all’inizio degli anni ’50, diedero poi il colpo di grazia a questa zona, e si assistette ad un rapido abbandono delle campagne. C’era da ricostruire un paese e le priorità erano altre, non certo il vino di qualità. Il vino non rendeva in generale, e qui meno che altrove anche per gli elevati costi di gestione della vigna. Le persone iniziarono così ad abbandonare i vigneti per riversarsi nelle industrie tessili e metalmeccaniche della zona. E cosi si è perso tutto, o quasi. Perché poi c’è l’uomo (alcuni uomini, fortunatamente), caparbio, tenace, che non si rassegna e continua, con passione e a dispetto di ogni regola di buon senso, a coltivare vigne a fare vino e mantenere vive denominazioni che altrimenti si sarebbero perse.

I Quattro Moschettieri dell’Alto Piemonte  

Da qui inizia (con tempi e percorsi diversi) la storia dei nostri quattro personaggi (che qualcuno ha simpaticamente battezzato: i Quattro Moschettieri dell’Alto Piemonte), ognuno, a modo suo, simbolo e ambasciatore della sua denominazione. Si sono raccontati e hanno raccontato i loro vini, dandoci modo di conoscerli un po’ di più e comprendere quanto sia vero l’aforisma di Erasmo da Rotterdam, “Il vino e il riflesso della mente”, tanto sembrava di ritrovare in ognuno dei loro vini, tratti del loro carattere e della loro storia che via via emergevano dai loro racconti. 

Vini diversi, organoletticamente distinti, ma profondamente uguali e uniti da un’identità e una riconoscibilità territoriale pressoché unica nel panorama delle nostre denominazioni …  vini diversi, ma armonici e che ben si complementano uno con l’altro, come i suoni di una grande orchestra, in cui riconosci i suoni più caldi e profondi del violoncello (il Boca ), quelli più vibranti e metallici del violino (il Gattinara), quelli più limpidi e leggiadri del clarinetto (il Ghemme) e quelli morbidi, eterei ed eleganti del pianoforte (il Lessona).

No, non mi sono “bevuto”, insieme ai vini della serata, il cervello. Anni fa, intervistando un produttore e la sua compagna americana, entrambi appassionati come me (… come quasi tutti direi!) di musica, abbiamo iniziato a giocare al gioco: “se questo vino fosse musica, che musica sarebbe!”. È stato divertente; un modo diverso per “sentire” (in questo caso il termine è quanto mai appropriato) cosa pensa il produttore del suo vino, in un modo sicuramente meno tecnico e più personale!

Per alcuni il Vino è musica classica, perché come la musica classica non ha parole, parla direttamente all’anima, senza trasposizioni e mediazioni e ha la capacità di farti vibrare direttamente. Per altri il Vino può essere jazz, un brano degli U2 o una canzone di Mina. È una questione di emozioni. E nelle emozioni, come nella musica, non c’è giusto o sbagliato; c’è la percezione personale, la storia, i gusti e la cultura di ognuno di noi. La musica è fonte di emozioni e lo è anche il vino.

Il vino è come una cassa di risonanza che dà emozioni pure, non mediate, e per me che sono un “nebbiolo-addicted”, questi vini lo sono, senza alcun dubbio!

È per questo che ho trovato divertente e interessante continuare questo gioco nel tempo: con gli amici attorno ad una bottiglia e con quasi tutti i produttori che ho avuto la fortuna di incontrare. Così ho voluto provare a fare lo stesso in occasione di questa degustazione. Per introdurre questo gioco, ho ripreso una considerazione di Luca De Marchi, emersa durante una recente intervista, che ben si sposa con le caratteristiche de i vini che abbiamo potuto degustare in questa serata:

Il vino è musica classica e, citando mio padre (perché ha ragione e perché è contro una certa logica della degustazione), dico che “la Grande Musica, non è grande in dipendenza del volume a cui la suoni, ma è grande in dipendenza di quanto bene è composta. Lo stesso è per il vino: non è la potenza che c’è nel bicchiere, ma è l’equilibrio che sei riuscito a dare”.  Questa per me è una bella definizione di quello che deve essere un grande vino: la capacità di essere in equilibrio con tutte le sue componenti. La lunghezza, la persistenza, l’acidità, il frutto, i tannini … tutto in equilibrio!.”

E allora, se il vino è musica classica, lasciatemi giocare con questi quattro “vigneron” e con i loro vini.

Cinzia Travaglini e il Gattinara Riserva

Fine, vibrante, apparentemente austera, ma capace di regalare grandi emozioni (figlie di una passione enorme per il suo territorio e per l’eredità ricevuta dal padre Giancarlo), se si ha la pazienza di ascoltare, di aspettare e andare oltre il primo ascolto (… o il primo sorso), esattamente come con i suoi vini (e di Massimo, il marito che ha seguito e appreso dal suocero Giancarlo i segreti dei loro vigneti).

Il Nebbiolo trova su queste ripide colline un suolo di porfido, particolarmente compatto e duro, friabile in superficie, dotato di una componente acida e ferrosa particolarmente rilevante, capace di donare al Gattinara note minerali e sapide molto particolari. Come direbbe Mario Soldati, è il “vento che passa sui ghiacciai del Rosa, pochi minuti prima di soffiare tra le vigne” a dare forza, austerità, carattere e longevità a questo vino.

“Un sorso: ma neppure il più piccolo sospetto di sapore zuccherino: un asciutto, un amaro tutto amaro, di un amaro gradevolissimo. Avrebbe del Porto, un Porto smagrito, prosciugato, fatto fluido, quasi etereo. Ma pensare al Porto è, tecnicamente, un’eresia.” (da “La messa dei villeggianti”) le parole di Mario Soldati per raccontare le emozioni di un bicchiere di Gattinara.

Se i vini di Cinzie e Massimo fossero musica, per me sarebbero Beethoven, per come sanno essere austere e vibranti (minerali) le sue composizioni, con il violino come protagonista  (Il Concerto per Violino e Orchestra in  Re maggiore, ad esempio).

Vini in degustazione:

  • Gattinara Riserva 2010
  • Gattinara Tre Vigne 2006
  • Gattinara Riserva 2007

Alberto Arlunno e il Ghemme Collis Breclemae (Antichi Vigneti di Cantalupo)

Piacevole, avvolgente, pacato e brillante; profondo conoscitore del suo territorio e della sua storia. Non ti racconta di travasi e affinamenti, quanto di geologia, di vigneti, di storia e della sensibilità per questi elementi dei moniaci cluniacensi, che dalla Borgogna si spinsero fin su queste colline avendo compreso la grandezza di queste zone.

Se a Gattinara il nebbiolo si esprime austero e minerale, qui, sulle colline di Ghemme, grazie ai suoli poveri e poco fertili, formati da miliardi di ciottoli friabili e ricchissimi di minerali, si esprime più sottile (nell’accezione positiva del termine n.d.r.), fine e leggiadro, perché, come spesso ama dire Alberto: “Il terroir di un vino è, prima di tutto, una dimensione interiore che merita di essere coltivata!”.  Capace di citare a memoria uno scritto del 1845 di Camillo Benso Conte di Cavour a proposito di questi vini: “Cotesto vino possiede in alto grado quello che fa il pregio dei vini di Francia e manca generalmente ai nostrani: il bouquet, somiglia al bouquet del Borgogna il quale per certe varietà prelibate come il Clos di Vougeot ed il Romanet gode la primizia su tutti i vini di Francia. Or dunque rimane provato che le colline del Novarese possono gareggiare coi colli della Borgogna; e che a trionfare nella lotta è solo necessario proprietari che diligentino la fabbricazione dei vini (e i nostri 4 Moschettieri lo sono di certo n.d.r.), e ricchi ed eleganti ghiottoni che ne stabiliscano la riputazione. Vorrei sinceramente poter cooperare a questa crociata enologica”, per testimoniare l’assoluta eccellenza dei vini di questo territorio.

Se i vini di Alberto fossero musica, per me sarebbero Vivaldi, per come sanno essere armoniche, leggiadre e brillanti le sue composizioni, con il flauto come protagonista (Concerti per Flauto Traversiere).

Vini in degustazione:

  • Colline Novaresi Abate di Cluny 2009
  • Ghemme Cantalupo Anno Primo 2009
  • Ghemme Collis Braclemae 2007

Christoph Kunzli e il Boca (Le Piane)

Caldo, profondo, maestoso. Cosa può succedere se “innestate” – il verbo, visto il contesto, è più che appropriato – cuore, fantasia e passione italiana con testa, rigore, precisione e meticolosità svizzera? Può succedere che una denominazione storica (l’aneddotica vuole che il Cardinale Giuseppe Sarto – futuro papa Pio X – in visita da queste parti agli inizi del ‘900, abbia definito questo vino come essere “Non vino da Cardinali, ma vino da Papi!”), quasi vicina all’estinzione negli anni ’90, oggi abbia ripreso vita grazie ad uno svizzero con “cuore e fantasia” italiani. Christoph è persona sensibile, profonda, dotata di grande umanità, una delle rare per cui la parola riconoscenza ha ancora valore e significato. La riconoscenza verso gli amici che lo hanno “spinto” e supportato in questa impresa (da Paolo De Marchi, l’amico che ha tanto insistito perché andasse fino a Boca ad assaggiare i vini del Cerri, a Alexander Trolf enologo austriaco con cui ha dato origine a questo progetto, fino ad Antonio Cerri, il “vecchio” proprietario dei vigneti e della cantina che considera come un “maestro” di vigna, e altri ancora).

La mineralità dei terreni porfidi, fatti di rocce vulcaniche antichissime, che si sfaldano facilmente quasi a diventare polvere, e la struttura del Nebbiolo, donano al Boca profondità e complessità espressive uniche. Austerità, potenza ed eleganza si alternano e s’intrecciano.

Se i vini di Christoph fossero musica, per me sarebbero Brahms, per come sanno essere austere e maestose, calde e profonde le sue sinfonie, con il violoncello come protagonista (Sinfonia n.2).

Vini in degustazione:

  • Piane 2012
  • Boca 2011
  • Boca 2007

Luca De Marchi e il Lessona (Proprietà Sperino)

Etereo e malinconico, elegante e delicato.  E qui, ovviamente per chi lo conosce, non mi riferisco al look di Luca e alle “apparenze”, ma alla sua essenza, al suo modo di pensare, che emerge subito se ci si concede il piacere di una chiaccherata insieme. Per lui il vino non è moda, è qualcosa di più profondo, è puramente un fattore umano, che ha che vedere con la lentezza o la velocità d’azione dell’uomo, con la leggerezza o la pesantezza degli animi che abitano un dato posto in un dato momento. Per questo il suo sogno è “riportare il Lessona, un vino che è stato per 400 anni – non 4 o 40 – il vino più importante d’Italia, dove merita: tra i grandi vini del mondo”. Per Luca e suo papà Paolo (sì proprio quello che ha spinto Christoph ad andare a Boca, n.d.r.) ridare vita all’azienda di famiglia è, per usare le loro parole, “come costruire un ponte tra il passato e il futuro. Tra quello che ha rappresentato questo posto per noi e quello che vorremmo tornasse a essere! Farlo insieme ci sembra proprio il modo migliore”.

Il Nebbiolo, nella zona di Lessona, trova un terreno acido, di sabbia marina, quasi privo di argille (che fanno da calamità per tutti i minerali); la vite in questi terreni riesce così ad assorbire molte piccole quantità di minerali liberi sciolti nel terreno, che danno sapidità, complessità e finezza al vino. In più, grazie ad un clima più mite, ha un ciclo vegetativo più lungo, permettendo così di ottenere vini estremamente aromatici. Nebbioli meno potenti e di impatto, ma molto più fini ed eleganti.

Se i vini di Luca fossero musica, per me sarebbero Schubert, per come sanno essere un po’ malinconiche e  intimiste, ma al contempo armoniche e ritmiche le sue composizioni per pianoforte (Trio per pianoforte n. 2).

Vini in degustazione:

  • Lessona 2011
  • ‘L Franc ****** 2010
  • Lessona 2007
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